a proposito di chiesa

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  1. Ilvio fedele
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    ICONE NAZIONALI E UMANITA' NEGATA

    CROCIFISSI E POVERI CRISTI

    Ha qualcosa di surreale la quasi unanime levata di scudi del mondo politico italiano nei confronti della pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo contro l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche. Ciò per parecchie ragioni.

    1. In primo luogo per il fatto che si sono ritrovate sullo stesso versante (sia pure, ovviamente, con sfumature diverse) forze che dovrebbero avere ispirazioni ideali e radici culturali differenti: lo dico non certo auspicando una ripresa di contrapposizioni ideologiche d’altri tempi, ma perché i cittadini meriterebbero di ascoltare, dalle forze politiche che chiedono loro il voto, parole chiare e – se non è troppo – veritiere su temi forse non di immediata portata pratica, ma certamente rilevanti su terreni più profondi e di più lungo respiro.

    2. In secondo luogo perché le argomentazioni portate a sostegno della permanenza dei crocifissi sui muri delle nostre scuole sono apparse spesso (e non da una parte sola) di una superficialità desolante: quasi si potesse liquidare la sentenza come il ghiribizzo stravagante di una combriccola di sfaccendati; e non si trattasse invece di una pronuncia certo discutibile (nel senso letterale del termine), ma che ha comunque il pregio di affrontare un tema che è destinato a divenire sempre più attuale man mano che la pluralità religiosa e culturale diverrà anche da noi – come già sta avvenendo – non un’ipotesi di scuola ma una realtà attuale e irreversibile.

    3. Infine (e mi fermo qui per non debordare troppo) per il fatto che l’episodio, pur di evidente rilevanza, non sembra esser stato colto come occasione per una riflessione seria e matura sui tanti temi collegati: fra gli altri, la “crocifissione” di troppi povericristi nella nostra società globalizzata e l’opportunità di riaprire, in termini adeguati ai tempi nuovi, un serio e maturo dibattito sul rapporto fra Stato democratico e dimensione ecclesiastico-religiosa. Al primo di questi due temi dedicherò più avanti qualche considerazione.
    Se non fossero state espresse pubblicamente e messe nero su bianco, si stenterebbe a credere che, per contrastare la sentenza strasburghese e le sue motivazioni, si siano accampate argomentazioni di così misera consistenza: anzi, più volte, dei veri e propri (si suppone inconsapevoli) paralogismi. Ne cito solo due per non infierire troppo.

    a. Il paralogismo delle zucche, inventato (magari per apparire brillante) da un insigne cardinale di curia. Ha detto il porporato: questa corte vuole abolire i crocifissi mentre tutela le zucche di Halloween. In prima elementare ci insegnavano a non sommare pere e mele (croci e zucche) ma, evidentemente, a sua eminenza la maestra deve aver dimenticato di dirlo. Qui siamo dinanzi, da un lato, all’imposizione permanente di un simbolo religioso alle scolaresche, dall’altro a qualcosa di paragonabile alle maschere di carnevale, che ognuno può scegliere di esibire o meno in occasione di quella festività.
    Qualora vi sia qualche insegnante che organizzi l’intaglio delle zucche (e magari il minaccioso aut-aut “dolcetto o scherzetto”) alla vigilia d’Ognissanti, costui dovrebbe essere paragonato a quelli che allestiscono il presepio per Natale o promuovono festicciole mascherate per carnevale: che diavolo c’entri tutto ciò con il crocifisso esposto obbligatoriamente in classe, forse sua eminenza si degnerà prima o poi di spiegarcelo. Magari nel corso di un’apposita, dottissima omelia.

    b. Il paralogismo delle icone e delle bandiere. Dice: il paesaggio italiano, dal centro di Roma alle più sperdute pievi di campagna, è pieno zeppo di croci, di madonne, di simboli cristiani. Che vogliamo fare? Abbatterli e cancellarli tutti per non offendere la sensibilità dei musulmani e dei miscredenti d’ogni risma? La nostra arte e la nostra letteratura esalano cristianesimo da tutti i pori. Dobbiamo, allora, vietare la Divina Commedia e imbracare pudicamente tutti quei santi dipinti e scolpiti in ogni dove?
    Ma c’è di più. Le bandiere di molti Stati ostentano proprio il simbolo della croce: quella britannica ne reca addirittura tre sovrapposte. E poi c’è la Croce Rossa, il cui nome corrisponde letteralmente al suo simbolo. Come la mettiamo? Chiederemo alla Svezia, alla Svizzera e a un’altra mezza dozzina di Stati di riporre nel cassetto le loro bandiere? O vedremo i malati d’altra fede agonizzare sulle soglie dei nostri ambulatori perché quella croce scarlatta impedisce loro d’entrare? A queste farneticazioni si può opporre soltanto l’esclamazione di Totò: ma mi facci il piacere…
    Che la nostra storia, la nostra cultura, la nostra immagine di nazione siano legate in misura preponderante alla tradizione cristiana (e più specificamente a quella cattolica[1]) è un dato innegabile. E chi vive in Italia, o anche semplicemente la visita, non può pretendere di negarlo. Del resto nessuno, penso, si sente offeso dalla mezzaluna che campeggia sulle bandiere di molti Stati a maggioranza musulmana (compresa la laica Turchia), né dal fatto che, dovendo chiamare un’ambulanza mentre di trova in uno di tali paesi, veda accorrere un’auto che ostenta non una croce, ma una mezzaluna rossa. Mentre, se gli capita di aver bisogno di soccorso a Tel Aviv, dovrà rivolgersi alla Stella di David Rossa.
    Altro discorso sarebbe quello da tenere nei confronti dell’imposizione di tali simboli nei luoghi dell’educazione pubblica. E qui comincia una possibile riflessione sul grado di laicità di contesti statuali a sfondo culturale-religioso diverso da quello cristiano. Una riflessione lecita, però, solo a patto che si svolga in primo luogo nei confronti di noi stessi[2].
    Un significato di rinnovata drammaticità può essere attribuito oggi al simbolo del crocifisso. Gesù accettò la morte infamante sulla croce (“mortem autem crucis”, come dice Paolo[3]) non solo in segno di estrema obbedienza alla volontà del Padre, ma come assunzione su di sé della condizione umana fino alla sua versione più distante dalla “forma Dei”, che pure gli era originariamente propria. Col suo martirio, dunque, l’uomo di Nazareth assunse nel modo più diretto la figura dell’“ultimo”, facendo proprio del servo, del povero, del perseguitato, del non-cittadino (della donna, del parvulus, dello straniero lasciato dolente al margine della strada, del lebbroso, del peccatore e persino dell’adultera o del ladrone), il suo pari, il suo erede e la sua immagine vivente, il primo che ascenderà con lui alla gloria del Padre.
    Proprio in questo suo significato specifico, che è ovviamente religioso ma che può essere riconosciuto nella sua validità universale anche da chi segue una fede diversa da quella cristiana o non ne professa alcuna, il crocifisso torna oggi ad assumere un’attualità che sembrava essere sbiadita e calante nella fase del trionfo della globalizzazione e del consumismo universale.
    Oggi che lo “stare ai margini” torna a farsi visibile e a offendere con frequenza crescente la pacificata sensibilità di noi abitanti del Nord-Ovest mondiale; oggi che il “respingimento” rimpiazza il dovere di una sia pur ordinata accoglienza di quanti bussano con disperata fiducia – ossimori in figura umana – alle nostre porte; oggi che sempre più spesso, nelle nostre periferie, ci capita di vedere gente che per vivere sarchia nei cassonetti la nostra spazzatura; per tacere delle famiglie gettate nell’indigenza dal venir meno del lavoro e – ferita estrema recata alla nostra buona coscienza – di quanto gli schermi televisivi ci portano in casa ogni giorno, siano piccoli dal ventre gonfio attaccati a mammelle vuote, favelas sconfinate, discariche abitate da bimbi, malati e morenti cui il “libero mercato” nega le cure, morti e mutilati ed esuli a migliaia per le mille guerre che punteggiano il pianeta.
    Oggi dunque, innegabilmente, quell’uomo nudo agonizzante su una croce torna a farsi non solo simbolo estremo di pietà e icona di un auspicato riscatto, ma anche ritratto veridico di una parte non trascurabile dell’umanità nostra contemporanea. Di un “prossimo” che è tanto più tale in quanto più lontano dal nostro benessere.
    Capita poi il caso di vedersi sbattere in faccia, come urlo disperato di una famiglia ferita a morte dalla fine imposta al più fragile – e più amato – dei suoi membri, un “crocifisso” di carne, immagine carpita dalla pietà d’un necroforo in un obitorio, denuncia di un’ingiustizia senza pari e insieme richiesta di una giustizia che al giovane non potrà ridare la vita, ma ai Cucchi e a tutti noi potrebbe restituire un briciolo di fiducia. Capita di vedere nei giornali la foto di Stefano Cucchi, trentenne anoressico della periferia romana, pescato dai carabinieri nel Parco degli Acquedotti con un pizzico di droga fra le mani, catturato e fatto sparire per poi restituirlo cadavere, vertebre lombari spezzate e occhi tumefatti.
    Capita di formulare pensieri che altri casi pur altrettanto dolorosi non suscitano. Di pensare non solo all’ingiustizia, alla violazione di legge commessa da chi ha negato a quel giovane affidato alla sua custodia il diritto fondamentale alla difesa e quello altrettanto inalienabile al contatto con i familiari. Ma anche e prima di tutto a coloro che su quel Cristo degli Acquedotti, già consunto da un malessere profondo e interminabile, hanno calato colpi spietati, senza sentire nemmeno la forza della più elementare compassione frenargli la mano. Un po’ come dovette accadere per gli scherani di Pilato quando flagellarono Gesù alla colonna. E capita, allora, di chiederci a che punto la gogna imposta al marginale, al “drogato”, possa fungere da oppio per le coscienze di coloro che, nel garantirci l’“ordine”, dovrebbero sempre, in pari tempo, rammentare che quell’ordine non appartiene solo a chi sta “dalla parte giusta”, ma a tutti. A tutti, senza eccezione. Compresi i drogati anoressici (ma forse questo il sottosegretario Giovanardi, cattolico praticante, non lo sa: nel suo caso, però, l'ignoranza è non una scusante, ma un'imperdonabile aggravante). .
    La circostanza che il povero Cucchi fosse (o fosse stato) un tossicomane, da tempo in lotta per liberarsi dalla dipendenza, spinge a svolgere qualche considerazione proprio sull’argomento “droga”. È probabile che le sue abitudini di consumo e le loro conseguenze sulla psiche e sul comportamento contribuissero ad aggravare la sua già radicata debolezza, la sua “anomalia”, magari anche a scatenare una sua scomposta ribellione di fronte all’arresto. Ed è possibile che il bisogno di procurarsi le sostanze spingesse il giovane a comportamenti contrari alla legge, come lo spaccio.
    C’è da chiedersi tuttavia se in alcuni casi – o forse nella maggior parte di essi – non sia proprio la proibizione a confinare l’insieme delle “droghe” che ne sono oggetto nella sfera dell’economia criminale. Nella quale non possono evitare di essere coinvolti, dunque, gli stessi consumatori. E’ un circolo vizioso ben noto, il cui permanere ha contribuito in misura importante – talora determinante – a conferire alle varie mafie (dominatrici incontrastate di quell’economia) il formidabile potere di cui dispongono.
    Chi visiti il famoso mercato dei fiori di Amsterdam potrà trovare in vendita sui banchi multicolori, tra bulbi di giacinto e sementi di prezzemolo, anche le buste dei semi di cannabis: indispensabili per coltivare sul balcone le proprie piantine di marijuana. L’Olanda è uno dei paesi fondatori dell’Unione Europea: fa parte da oltre mezzo secolo del nostro stesso mercato unico. Allora i casi sono due: o gli olandesi sono una banda di criminali dediti alla diffusione delle tossicomanie fra i nostri giovani, oppure è stolta e criminogena la proibizione di un’erba che di per sé non ha mai ucciso nessuno. Ma per il possesso della quale, dato che si tratta di una sostanza vietata, si può venire arrestati e, se si è particolarmente deboli e sfortunati (e magari troppo ostinati nel pretendere di parlare con il proprio legale), si può essere restituiti alla famiglia sotto forma di cadavere.

    Silvio Verde


    Al peculiare rapporto tra la nazione Italia e la Chiesa cattolica, e alle caratteristiche differenti che tale rapporto assume da noi rispetto ad altri paesi europei pure di analoga tradizione, è dedicato uno studio pubblicato in questo sito alcuni anni or sono, a cui mi sia consentito rinviare

    [2] L’uso di paralogismi per sostenere le proprie traballanti ragioni non è un’esclusiva dei dibattito su materie di carattere, o comunque a sfondo, religioso. Se ne trovano esempi tutt’altro che rari, per esempio, anche nel discorso politico. Si prenda il caso dell’on. Rutelli, apprezzato ex sindaco di Roma di cui è nota la tendenza a trasmigrare (politicamente parlando) di casa in casa: dai Radicali ai Verdi alla Margherita al PD e ora nei pressi dell’UDC di Casini. Tutte le volte con incarichi di primario rilievo.

    In occasione del suo abbandono della casa democratica, a chi aveva ricordato questi suoi trascorsi vagabondi l’ottimo Rutelli ha ribattuto citando la serie di cambi di casacca che caratterizza molti esponenti del PD: dal Pci al PDS ai DS al medesimo PD. Giusto. Ma con una piccola differenza rispetto al nomadismo dell’ex segretario di… quasi tutto: che questi ultimi partiti si sono via via sciolti, cosicché la trasmigrazione dei loro aderenti non è stata, come tale, una scelta individuale, ma una necessità inderogabile (fermo restando che ciascuno di essi ha potuto di volta in volta scegliersi questo o quel nuovo domicilio politico, oppure senz’altro rinunciarvi). Mentre le ripetute migrazioni rutelliane non sono state imposte da nulla e nessuno, ma sono state semplicemente il frutto della vocazione transumante del Nostro: vocazione che in qualcuno può suscitare anche simpatia, ma non gli rende lecito attribuire ad altri tendenze tipicamente sue.

    Tendenze di cui – magari – sotto sotto lo stesso Rutelli non va propriamente fiero. Tanto da sbottare, come i bambini pizzicati con le dita nella marmellata: “e tu, allora…”.

    [3] Filippesi, II, 8
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45 replies since 2/9/2008, 18:15   377 views
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